La storia del marketing ci insegna che spesso ad avere più successo sono quelle aziende che hanno impostato delle campagne di marketing meno tradizionali, fuori dagli schemi, in grado di stupire il consumatore con qualcosa di nuovo.
La definizione
Secondo uno studio redatto dall’agenzia di marketing digitale Wunderman, oltre l’80% dei consumatori preferisce instaurare una relazione con brand che hanno stabilito nuovi standard di comunicazione, che vanno oltre le aspettative e che osano spingersi oltre i confini delle consuete modalità espressive. In questo contesto, il marketing tradizionale cede il passo al “marketing dirompente”, che audacemente punta a rompere lo status quo. Disruptive Marketing quindi significa capovolgere tutte le regole del marketing tradizionale, cambiando la percezione non solo dell’azienda, ma del settore nella sua interezza. Ben si coniuga quindi con il Business Model distintivo che intendiamo proporre al mercato. Il disruptive marketing è contro le regole, dunque non esiste una regola precisa per farlo.
Perché è necessario?
La necessità di creare qualcosa di “dirompente” nasce come risposta alla situazione odierna; in una società di consumatori sempre connessi, soprassaturati e con una soglia di attenzione sempre più bassa, vince chi smette di seguire le regole e chi riesce ad attirare l’attenzione del consumatore. Il “disruptive marketing” è più di una provocazione, di un passa parola virale o di una campagna anticonvenzionale. Deve far parlare di sé, deve generare discussione, e soprattutto, deve rimanere ancorato nella mente del consumatore il più a lungo possibile.
Chi risica non rosica
Il Marketing Disruptive è un approccio, un modo di pensare e di osare; incoraggia le Aziende a ripensare l’intero brand, non solo le campagne di comunicazione. Ciò implica essere disposti a cambiare il proprio modello di business, il prodotto o servizio e, infine, il messaggio che comunicano ai consumatori. Chi fa disruptive marketing scommette, osa, ma può facilmente perdere tutto: se il gruppo target non è quello giusto, se il messaggio viene recepito in modo sbagliato, si può facilmente perdere tutto, rischiando la propria reputazione e di dover tornare sui propri passi.
Non comprate quella giacca!
Nel 2011 l’azienda di abbigliamento outdoor californiana ha lanciato una campagna che metteva in dubbio uno dei pilastri del settore: l’andare di moda e fuori moda dei capi. “Don’t buy this jacket” era il categorico claim che invitava i clienti a scegliere sì un capo Patagonia, ma per farlo durare il più possibile. L’azienda quindi spronava i suoi affezionati fan a non cadere nella trappola della fast fashion, ma di ripensare le proprie abitudini di acquisto verso la durabilità e la qualità, valori cardine del marchio del Fitz Roy. In questo caso, un brand come Patagonia, da sempre sensibile alla tematica della responsabilità ambientale e sociale d’azienda ha fatto un passo estremo, addirittura invitando a “non comprare” i propri capi. La carica quasi paradossale della campagna le ha dato ragione: secondo Bloomberg, la campagna ha fatto aumentare le vendite di Patagonia del 34%.